Cipria, perché la mia bisnonna mi sembrava un pesce fritto, ma poi mi sono resa conto, crescendo, di quanto fosse elegante, quel suo gesto di spruzzarsi col pennello. E ancor prima, quel suo modo di scegliere la cipria, in profumeria: la consistenza, il colore, il profumo. Soprattutto il profumo. Quello che la contraddistingueva. Quello che la precedeva. Quello che la seguiva. Nei miei ricordi, la mia bisnonna si materializza uscendo da una nuvola di cipria. E di tanto in tanto, la vado a cercare tra i resti di una scatoletta Yves Saint Laurent (“su rossetto e cipria, non si fanno economie”). E non c’è correttore o fondotinta che eguagli la magia della polvere di cipria che sa restituirmi l’eleganza antica di una persona tanto amata. “Cipria”: ed è un dolcissimo moto del cuore. Sei lettere dall’odore lieve e impalpabile, che è impossibile non sentire.
Che parola vuoi buttare?
Tirocinio, perché si tratta della parola sdrucciola più inelegante del vocabolario italiano. Evoca il tiro mancino e le bugie di Lucignolo. Ben lontano dal noviziato militare del tempo dei romani, il tirocinio dell’anno 2000 è una tiritera senza tutela che fa rima con ladrocinio. Formazione allo sbando, nessuna fiducia, nessun amore per il lavoro (a cui non è certo finalizzato). Altri erano i tempi in cui il tutore guardava il novizio, fiero di passargli il mestiere, gli stessi ferri, gli stessi calli.
Ursenna, la tirocinante.